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Primo premio per la tesi di laurea sul Progetto di restauro del borgo medievale di Craco, in Basilicata

Le taccole, come macchie d’inchiostro su un foglio azzurro, disegnano, in volo, un’aureola intorno alla sommità della quadrata Torre Normanna che da un costone roccioso si staglia verso il cielo.

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Austera, indolente al tempo e ai fatti degli uomini, da 1000 anni domina la valle. Ai suoi fianchi la cingono i torrenti Bruscata e Salandrella, antichi solchi di comunicazione, e più in là, il fiume Agri, anticamente navigabile, nell’omonima valle. Prima della Torre, nella profondità del pozzo della storia, tante altre vicende, oggi meno visibili, ma non meno importanti. E’ la storia di Craco, nell’entroterra lucano, a metà strada tra la costa jonica e l’appenino. Luogo che visse ancor prima dei Normanni i riflessi dei fasti della greca e ricca Metaponto, alleata di Atene e nemica di Roma. Luogo, ancor prima di Craco, denominato Montedoro, popolato da coloni greci, strategico e di confine tra la cultura e i commerci della civiltà della Magna Grecia e le popolazioni indigene.

Ma è dall’anno mille, con la presenza dei Normanni nel sud Italia, che Craco (da Grachium, campo arato o maggesato), comincia ad assumere i connotati attuali. Tutto nasce da lì, dal punto più alto del costone roccioso, dove viene eretta la Torre Normanna, con funzioni di difesa e di presidio del territorio. Il primo documento ufficiale che attesta il nucleo dell’abitato infatti, è una Bolla vescovile dei possedimenti del vescovo di Tricarico, datata 1060, mentre documenti del 1154 e del 1168 citano la Torre nelle sue funzioni. La Torre fa da chioccia di protezione e Craco di espande sotto le sue mura, più in basso. Nel 1266, viene riconosciuta come Universitas (il moderno Comune). Nuove costruzioni si aggiungono. Cresce la popolazione: nel 1561 raggiunge la ragguardevole cifra di 2.500 abitanti (massimo storico demografico). Nascono i primi Palazzi nobiliari e nel 1574 viene eretta la Chiesa matrice, dedicata a S. Nicola. Nel 1870, con 1900 abitanti, si registra la massima espansione comunale del centro abitato. E’ l’inizio della fine. Da questo momento si documentano le necessità per il consolidamento dell’abitato per la presenza di una importante frana. La delicata conformazione geologica del luogo che si affaccia sulla fossa bradanica, combinata all’azione antropica dell’uomo, con particolare riferimento al disboscamento e alla trasformazione del paesaggio, unita alla conformazione carsica del terreno e al deflusso delle acque meteoriche, che segnano il terreno con profondi solchi e innescano fenomeni di erosione, minano irrimediabilmente il destino di Craco.

Nel 1963, una nuova frana, obbliga le autorità ad una parziale evacuazione della popolazione. Al grave dissesto idrogeologico, si unisce, nel 1980, il terremoto nell’Italia meridionale che impone al resto della popolazione a trasferirsi in un centro urbano realizzato a 7 km a valle, denominato Peschiera di Craco.

L’abbandono dell’abitato, conduce ad uno stato avanzato di degrado, accelerato da una mancata manutenzione che, ancor più del movimento franoso, mina, oggi, la sopravvivenza del borgo stesso. Tuttavia, è l’aspetto decadente che paradossalmente, costituisce il valore aggiunto di Craco, inscindibilmente legato ad un paesaggio naturale altamente suggestivo, caratterizzato da colline dalle forme sinuose, i Calanchi.

Il suo aspetto “ruderizzato” in tempi recenti ha catturato l’attenzione di un turismo colto e l’interesse del cinema d’autore, che ha più volte scelto la location confermandone la forte vocazione scenografica. Lo testimoniano alcune scene girate a Craco da Pasolini “Il Vangelo secondo Matteo” (1964), Rosi “Cristo si è fermato ad Eboli” (1979), Gibson “La passione di Cristo” (2004) assieme ad altri autori, ultimo dei quali il regista lucano, Faretta con il film “Montedoro” (aprile 2016).

Studi condotti al Politecnico di Bari, presso il Dipartimento di Scienze dell’Ingegneria Civile e dell’Architettura, anche attraverso appositi laboratori di tesi di laurea, hanno rivalutato l’attuale ruolo e significato del borgo medievale di Craco e proposto un progetto di recupero e restauro dell’abitato al Comune lucano grazie ad un accordo-quadro tra il Dipartimento del Politecnico di Bari e l’Amministrazione del comunale. L’accordo, sottoscritto nel 2014, riguarda “lo studio, la conservazione, la valorizzazione e la fruizione del borgo antico di Craco (MT)”. E nel solco della collaborazione in atto, il primo laboratorio di tesi di laurea, “Progetto di restauro del borgo medievale di Craco (MT)”, elaborato da sei neo-architetti del Politecnico: Pietro Colonna (Altamura), Maria Antonietta Pepe (Fasano), Annamaria Santarcangelo (Novasiri), Agata D’Ercole (Andria), Claudia Bisceglia (Mattinata), Claudia Calitro (Andria), ha vinto il 1° Premio nazionale “ARCo Giovani 2015” per la tesi di laurea di restauro sul costruito storico. La proclamazione dei vincitori è avvenuta a Roma, presso l’Università “La Sapienza”, in una apposita cerimonia.

Il progetto di restauro del borgo abbandonato di Craco, proposto dai neo-laureati in architettura e coadiuvato dai docenti del Poliba: prof. Rossella de Cadilhac (coordinatrice), prof. Matteo Ieva, prof. Dora Foti, prof. Gabriele Rossi, ing. Michele Vitti, è nato partendo dall’assunto che anche le criticità potessero diventare punti di forza per poter far rivivere il borgo, anche attraverso la valorizzazione degli aspetti identitari.

Il progetto, che ha messo in campo percorsi multidisciplinari, prevede due ambiti di intervento: urbanistico e architettonico. Nel primo, viene previsto la realizzazione di un sistema di monitoraggio sull’andamento del fenomeno franoso; la realizzazione di opere di regimazione e smaltimento delle acque meteoriche; la sistemazione paesaggistica dei versanti con interventi di forestazione e piantumazione di vegetazione autoctona; il consolidamento del pendio franoso attraverso opere di contenimento del terreno, basate sull’uso di terrazzamenti realizzati in muretti di pietra a secco; la messa in sicurezza dei percorsi per favorire la fruizione del centro; il consolidamento e la protezione dei ruderi ai soli fini scenografici; la realizzazione di un albergo diffuso, che recuperi alcune unità abitative.

In ambito architettonico, invece, il progetto vincitore, prevede il restauro e la ri-funzionalizzazione di alcuni edifici scelti per la loro funzione rappresentativa presenti su un’area che offre buone garanzie di stabilità, quali la torre normanna, la chiesa madre di San Nicola, il palazzo nobiliare Grossi e di alcune unità abitative situate alla base della torre.

 

Il progetto, nel suo insieme, ha inteso promuovere l’attività di ricerca sui temi della difesa del suolo e del recupero edilizio in aree franose. Ma soprattutto ha inteso contribuire a rivitalizzare, con una proposta concreta, la memoria storica di una comunità legata a fatti, relazioni, luoghi, segni tangibili. La vera forza del progetto, che è anche la sua ambizione, consiste nel far acquisire una nuova identità a quella Torre, a quelle case a quel borgo immobile, sospeso nel tempo, che sul finire del giorno al crepuscolo, racconta, nel silenzio, le storie, i sussulti, le fatiche, le gioie di volti sfuocati che rinverdiscono il ricordo della nostalgia, della perdita, intimo e affettivo solo di chi visse quel luogo.

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